La ristorazione italiana non è mai stata chiusa su se stessa, ma piuttosto aperta ai contributi dall’esterno. Pensiamo ai tanti stranieri che sono diventati ormai forse più italiani di noi: Heinz Beck, Bob Cristoph, Roy Caceres, Ernst Knam e così via. Nikita forse come loro e più di loro dall’Italia ha appreso non solo la passione per i sapori e per la cucina, ma con l’entusiasmo contagioso che potrebbe avere un campano o un siciliano, mantenendo per giunta l’allegria di un diciottenne (è sempre giovane, ma gli anni comunque passano anche per lui). Pregi che non si esauriscono nella simpatia, ma che si estendono anche alla professionalità. L’inevitabile gap conoscitivo di chi viene dall’estero è stato colmato con una curiosità prorompente, con un girovagare continuo per l’Italia, creando amicizie e collegamenti utili con i colleghi. Insomma Nikita sta crescendo nel modo migliore. E abbiamo mangiato bene, molto meglio ovviamente della prima volta quando capitammo qui all’improvviso dopo poche settimane dell’apertura. Certo l’ambizione di voler giocare in champions si vede dal menù eclettico ed ambizioso che ci ha proposto, e dove errori e difetti non mancano (ci si sporca troppo le mani negli stuzzichini iniziali, i due primi ci sono parsi deboli, e il secondo, di ottima tecnica, ma di non perfetto abbinamento tra scampo e patata), ma la sequenza degli antipasti è di valore (salvo la presentazione che potrebbe essere talvolta migliore) e anche il dessert di nobile fattura e finalmente ci fa ricordare che Nikita è nato lontano da qui.